Classical Music



1. Amor che ne la mente mi ragiona (feat. Serena Moine)
2. Atalanta fugiens – Fuga XLVI
3. Atalanta fugiens – Fuga XLIX
4. Ave Maria, CG 89a riscritta in minore (feat. Serena Moine)
5. Preludio No. 1 dal Clavicembalo ben Temperato BWV 846 riscritto in minore
6. Fuga No. 1 dal Clavicembalo ben Temperato BWV 846 riscritta in minore
7. C + D
8. Lingua ignota
9. Incantesimo vocalico femminile
10. Incantesimo vocalico maschile
11. Sonetto nel Caucaso

AMOR CHE NE LA MENTE MI RAGIONA

Per i 700 anni dalla morte di Dante Alighieri ho dedicato un intero album al poeta fiorentino. Il tutto nasce come colonna sonora di un docu-film sceneggiato da Corrado Vallerotti, promosso dal comune di Verzuolo (CN), dall’Associazione Librarsi e dedicato ai frammenti di un antico codice dantesco conservati presso il palazzo comunale. L’idea iniziale doveva essere quella di procedere con la scrittura della musica di un testo breve, un sonetto o uno stralcio dalla divina Commedia. Poi il ricordo del passo del Purgatorio (‘Amor che ne la mente mi ragiona’ / cominciò elli allor sì dolcemente, / che la dolcezza ancor dentro mi suona. / Lo mio maestro e io e quella gente / ch’eran con lui parevan sì contenti, / come a nessun toccasse altro la mente. Pg. II 112-117) in cui Dante incontra il suo amico Casella mi ha condotto verso la canzone Amor che ne la mente mi ragiona tratta dal Convivio. Si tratta di una lode della donna, in questo caso simbolo della Filosofia, scritta una decina d’anni prima della stesura del trattato filosofico e adattata dal poeta in modo allegorico per l’occasione.
Queste le due strofe musicate e cantate dalla soprano Serena Moine e riproposte in una veste molto diversa da quella inserita nel cortometraggio:

Amor che ne la mente mi ragiona
de la mia donna disiosamente,
move cose di lei meco sovente,
che lo ’ntelletto sovr’esse disvia.
Lo suo parlar sì dolcemente sona,
che l’anima ch’ascolta e che lo sente
dice: "Oh me lassa! ch’io non son possente
di dir quel ch’odo de la donna mia!"
E certo e’ mi conven lasciare in pria,
s’io vo’ trattar di quel ch’odo di lei,
ciò che lo mio intelletto non comprende;
e di quel che s’intende
gran parte, perché dirlo non savrei.
Però, se le mie rime avran difetto
ch’entreran ne la loda di costei,
di ciò si biasmi il debole intelletto
e ’l parlar nostro, che non ha valore
di ritrar tutto ciò che dice Amore.

Canzone, e’ par che tu parli contraro
al dir d’una sorella che tu hai;
che questa donna che tanto umil fai
ella la chiama fera e disdegnosa.
Tu sai che ’l ciel sempr’è lucente e chiaro,
e quanto in sé, non si turba già mai;
ma li nostri occhi per cagioni assai
chiaman la stella talor tenebrosa.
Così, quand’ella la chiama orgogliosa,
non considera lei secondo il vero,
ma pur secondo quel ch’a lei parea:
ché l’anima temea,
e teme ancora, sì che mi par fero
quantunqu’io veggio là ’v’ella mi senta.
Così ti scusa, se ti fa mestero;
e quando poi, a lei ti rappresenta:
dirsi: "Madonna, s’ello v’è a grato,
io parlerò di voi in ciascun lato".

ATALANTA FUGIENS – FUGA XLVI

Opera assai curiosa in quanto corredata di una sequenza di cinquanta esempi musicali (canoni a tre voci) in perfetta simbiosi con un apparato iconografico carico di simbologie; mai come in questo testo – uscito nel 1617 presso l’editore De Bry di Oppenheim – il ruolo della musica ha avuto una valenza alchemica così decisiva: in essa è ripreso e sviluppato in maniera sempre diversa un canto fermo ecclesiastico risalente all’XI-XII secolo, tenendo presenti le caratteristiche tipiche di ogni emblema mitico: a seconda dei temi trattati si avranno canoni per aumentazione, cancrizzanti o inversi che riescono a sottolineare mirabilmente la qualità e il soggetto del testo cui fanno riferimento.
Il mito di Atalanta diventa così non solo un pretesto per simboleggiare la fatica e gli ostacoli della ricerca alchemica, ma anche un ottimo espediente musicale per esprimere il rincorrersi delle tre voci – rappresentate miticamente da Ippomene, dalle mele da lui gettate in terra e dalla stessa Atalanta – all’interno del canone. Il mito greco è sempre utilizzato da Maier per rappresentare una particolare condizione o fase dell’opera non condensabile in altro modo; il ruolo assunto dal mito fin dalle sue origini è di svelare realtà non riconosciute dai più e di aprire le porte ad una ipotetica conoscenza superiore; con questa chiave di lettura le antiche ‘favole’ diventano portatrici di un sapere rilasciato dalla divinità all’uomo, in un tempo in cui la comunicazione con il divino non era ancora interrotta. La vicinanza concettuale con l’esperienza mosaica è tanto stretta da poter accomunare su un piano ipotetico la trasmissione della musica, cui si è fatto riferimento in precedenza, a quella del mito.
Ho scelto la Fuga 46 perché palindroma e pertanto vicina ai giochi musicali che già sviluppai nell’album Math Music.


ATALANTA FUGIENS – FUGA XLIX

Il canone in questione crea non pochi problemi di interpretazione: innanzitutto ci sono due evidenti discrepanze tra la voce fugiens e quella sequens. La prima consiste in una differente durata della terza nota; in secondo luogo manca una nota nella voce sequens probabilmente per recuperare il valore eliminato con la terza nota. Difficile dire se si tratta di sviste o di volontari messaggi in codice atti a rimarcare qualche cosa di occulto. Di non facile interpretazione anche la dicitura al termine della voce Pomum Morans: l’Incipe a fine mi pare chiaro e lo si intenda come tale. Il verte hanc vocem in g può contenere un trabocchetto: la voce è già scritta in chiave di sol e dunque la dicitura è scontata; ciò che non è chiaro è il descendendo in a finale: personalmente interpreto il descendendo come ‘risolvendo’ e dunque ho trasposto i quattro sol finali un tono sopra (non sarebbe comprensibile altrimenti il senso dello scendere quando in realtà tocca salire di un tono). Il problema è che quando si incastrano le tre voci non sempre tutto va per il verso giusto: alcuni passaggi risultano troppo arditi per il periodo storico in cui sono stati scritti: deve esserci ancora qualche giustificazione che sfugge alla trascrizione.
Questo il testo dell’epigramma latino:
Fabula narratur, Phoebus, Vulcanus et Hermes
In pellem bubulam semina quod suerint;
Tresque Patres fuerint magni simul orionis:
Quin Sobolem Sophiae sic tripatrem esse ferunt:
sol etenim primus, Vulcanus at esse secundus
Dicitur, huic praestans tertius arte pater.


AVE MARIA, CG 89A

Si tratta della celebre Ave Maria che Charles Gounod costruì sul primo preludio del Clavicembalo ben Temperato di Johann Sebastian Bach riscritta in tonalità minore e cantata dalla soprano Serena Moine.

PRELUDIO E FUGA NO. 1 DAL CLAVICEMBALO BEN TEMPERATO BWV 846

Sono qui presentati il primo preludio e la fuga relativa del primo libro del Clavicembalo ben temperato di Johann Sebastian Bach interamente riscritti in do minore. L’organico strumentale che ho scelto per le voci della fuga rappresenta (naturalmente) un omaggio a Wendy Carlos.

C + D

Sfruttando una clavietta (diamonica) ho suonato due mie composizioni per bambini tratte da due serie di 4 brani costruiti con un preciso intento ludico. Tutti i brani sono stati composti in modo tale che al termine di ogni riga (di 4 misure), la riga successiva di qualunque pezzo ne continui il senso armonico e melodico così da non creare salti bruschi o discontinuità estetiche.



Se si stampassero i quattro spartiti, li si dovrebbe sovrapporre e pinzare i relativi fogli lungo il lato sinistro come se si trattasse di una rilegatura. Tagliando lo spartito in quattro strisce sovrapposte tenute insieme da un lembo di carta ne nascono gli S-Partiti. Il meccanismo, arrivati a questo punto, è molto semplice: ogni brano è composto da 16 battute suddivise in 4 righe per ogni pagina. Essendo ogni riga indipendente dalle altre, e combinando le sequenze ottenute ne nascano brani sempre diversi e originali; in questo modo si possono formare 4x4x4x4 combinazioni di brani con soli 4 spartiti. Voltando una o più strisce in modo casuale ne risulterà sempre un brano di senso compiuto formato da 4 righi di 4 battute ciascuno.
Gli S-Partiti nella loro interezza sono stati pubblicati nell’album Math Music (2020).

LINGUA IGNOTA

Qui l'articolo relativo uscito su "Storie & Archeostorie": Cantare la 'Lingua ignota' di Hildegard von Bingen

Ildegarda da Bingen (1098-1179) fu monaca, mitica, teologa e scrittrice tedesca, badessa del monastero di Rupertsberg. Ideò una lingua probabilmente per scopi mistici della quale esistono due glossari conservati in due manoscritti: il Wiesbaden, Hessische Landesbibliothek, Cod. 2 e il Berlin, Preussische Staatsbibliothek, Cod. Lat. 4° 674. Consta di 1011 vocaboli con a fianco una traslitterazione latina o tedesca ma non presenta una grammatica: ciò fa pensare che fosse stata concepita come lingua artificiale universale basata su norme già consolidate.
Mi piace pensare che lo scopo della lingua ignota potesse essere anche di carattere musicale. La mia operazione è consistita nello scrivere un testo prendendo le parole inventate da Ildegarda costruendo un percorso di significati traducibile in questo modo:

Aignonz inimois, maiz scirizin, malkuirz zainz: rubianz suinz.
Agiziniz iunchkal, oneziz tirix, burizindiz ausiz: rischol iuriz.
Ruzia chorischia, spirlizim ranchil, staurinz, staurinz, staurinz!

Qui le stesse parole tradotte in latino dalla mistica:

Deus homo, mater filius, senex puer: sanguis sudor.
Magister discipulus, ianua limen, ignis cicuta: rex iudex.
Rosa lilium, falx aratrum, lapis, lapis, lapis!

Qui la traduzione italiana del testo:

Un dio e un uomo, una madre e un figlio, un vecchio e un bambino: sangue e sudore.
Un maestro e un allievo, una porta e un confine, fuoco e cicuta: re e giudice.
Una rosa e un giglio, falce e aratro, pietra, pietra, pietra!

INCANTESIMO VOCALICO FEMMINILE E MASCHILE

Qui l'articolo relativo uscito su "Psicoanalisi e Scienza": Musicate le formule vocaliche del Papiro W di Leida

Quelle che in latino sono conosciute come formulae o signaturae (formule melodiche brevi di norma associate a una sequenza alfabetica priva di senso apparente) facevano parte degli apēchémata della musica bizantina. Avevano una funzione precisa legata alla memorizzazione dei toni dell’októēchos bizantino.
Altra cosa erano le sequenze sonore vocaliche o consonantiche presenti sui papiri magici dei primi secoli dopo Cristo, veri e propri in-cantesimi riconducibili quasi certamente all’ambito musicale tramite l’associazione vocale/suono riportata in uno scritto di Nicomaco di Gerasa (I sec.):

A Luna Nete re
E Venere Paranete do
Ē Mercurio Paramese si bemolle
I Sole Mese la
O Marte Lichanos sol
U Giove Parhypate fa
Omega Saturno Hypate mi

Sfruttando questa tabella di corrispondenze ho trasformato in melodie due formule tra le moltissime presenti nel Papiro W (Excerpta ex libris apocryphis Moïsis) di Leida sulla scia del lavoro che Høeg prima e Wellesz poi fecero per tentare di rintracciare eventuali archetipi sonori di alcune melodie bizantine.
Questi i passi del papiro tradotti in latino che ho utilizzato per la composizione:

Invoco te, veluti a nominibus masculis vocaris:
IEÓ, OUE, ÓÉI, UE, AÓ, EIÓU, AOÉ, OUÉ, EÓA, UÉI, ÓEA, OÉÓ, lEOUAÓ.


Invoco te, veluti a nominibus foemininis vocaris:
IAÉ, EÓO, IOU, EÉI, ÓA, EÉ, IÉ, AIUO ÉIAU, EÓO, OUÉE, IAÓ, ÓAI, EOUÉ, UÓÉI, EÓA.
Invoco te, veluti venti praenuntiant.



SONETTO NEL CAUCASO

Tommaso Campanella, alla nascita Giovan Domenico Campanella (1568-1639), è stato un filosofo, poeta e frate domenicano. Nel 1594 fu processato dall’inquisizione romana per eresia e fu confinato agli arresti domiciliari per due anni. Accusato di aver cospirato contro i governanti spagnoli della Calabria nel 1599, fu messo in prigione, dove trascorse 27 anni tra torture e patimenti.
Questo è il sonetto dedicato a una delle sue celle di reclusione: il Caucaso.
È detta il Caucaso la prigione sotterranea di Castel Sant’Elmo, dove il Campanella fu sepolto per quattro anni dal luglio 1604 e nel quale ritornò ogni qual volta la sua pena subiva un rincrudimento, cioè nel 1614 e nel 1616. Questa la descrizione del carcere che ne fece il filosofo in una lettera datata 8 luglio 1607 a monsignor Antonio Querengo:
“Sotterra con ferri sempre sopra un fracido e bagnato stramazzo, e con pane ed acqua di tribulazione, senza veder mai cielo né luce né persona umana; in luoco sempre bagnato che stilla d’ogni muro acqua continuamente, talchè continua notte ed inverno io sento”.

Temo che per morir non si migliora
lo stato uman; per questo io non m’uccido:
ché tanto è ampio di miserie il nido,
che, per lungo mutar, non si va fuora.

I guai cangiando, spesso si peggiora,
perch’ogni spiaggia è come il nostro lido;
per tutto è senso, ed io il presente grido
potrei obbliar, com’ho mill’altri ancora.

Ma chi sa quel che di me fia, se tace
Omnipotente? e s’io non so se guerra
ebbi quand’era altro ente, overo pace?

Filippo in peggior carcere mi serra
or che l’altrieri; e senza Dio nol face.
Stiamci come Dio vuol, poiché non erra.



Commenti