Eddie Higgins

EDDIE HIGGINS:  ELEGANZA E RISERVATEZZA


Storia di un pianista raffinato, conteso come sideman dai grandi del jazz internazionale e autentica star del panorama discografico giapponese.

Discografia essenziale

Come leader:
• 1986: By Request (Solo Art)
• 1990: Those Quiet Days (Sunnyside)
• 1994: Zoot's Hymns (Sunnyside)
• 1996: Portrait In Black And White (Sunnyside)
• 1997: Haunted Heart (Sunnyside)
• 1998: Speaking Of Jobim (Sunnyside)
• 1999: Time On My Hands (Arbors Records)

Come sideman:
• 1958: Relaxin´ With Sandy Mosse con Sandy Mosse (Argo)
• 1959: Blowin’ Up A Breeze con Coleman Hawkins (Spotlite)
• 1960: Expoobident con Lee Morgan (Vee Jay)
• 1960: The Thinking Man’s Trombone con Al Grey (Argo)
• 1962: Wayning Moments con Wayne Shorter (Vee Jay)
• 1963: Jack Teagarden Sextet In Person At The Beach Club Hotel con Jack Teagarden (Fanfare Records)
• 1981: What’s New con Sonny Stitt (High Definition Jazz)

L’ascesa

Mi è capitato di discorrere con Eddie Higgins e di apprezzare la sua arte in tre occasioni differenti. L’ho conosciuto a Torino nel 2006 al Teatro Piccolo Regio in occasione di un suo concerto. Magro, riservato, estremamente educato e disponibile, con un timbro di voce flebile e un po’ rauco che lo rendeva inconfondibile: questo era Eddie. Il concerto in questione era per pianoforte solo e il repertorio da lui scelto avrebbe spaziato in libertà tra i grandi classici del jazz. Capii subito, sentendolo suonare, che ciò che Eddie dava ad essere come persona, allo stesso modo lo riversava nella musica: pacatezza nel tocco, eleganza nella costruzione delle introduzioni e nella resa dei finali, nessun eccesso virtuosistico ma raffinata capacità combinatoria nelle scelte armoniche. La lunghissima carriera di quell’uomo e le sue collaborazioni con i principali esponenti del jazz internazionale avevano lasciato un’impronta indelebile nel suo modo di interpretare e rendere la musica, in grado di spaziare all’occorrenza tra gli stili più disparati con una certa ‘sprezzatura’.
Edward Haydn Higgins proveniva da Cambridge, in Massachusetts, dove era nato nel 1932. Sua madre gli impartì i primi rudimenti sulla musica fino al suo trasferimento a Chicago, dove studiò alla Northwestern University School of Music.
Sarà proprio la Chicago degli anni ‘50 a svezzare artisticamente il giovane Higgins che per più di venti anni suonerà nei migliori locali jazz della città: qualità talvolta rara in un jazzista, la precisione e la costanza lavorativa di questo pianista sono dimostrate proprio dalle sue lunghe permanenze come attrazione o capo orchestra. Tra i tanti locali fissi che gli daranno lavoro ci saranno il Brass Rail, in cui militerà con la dixie-jazz band di Jimmy Ille, il Cloister Inn and Jazz Ltd., il Blue Note e il Preview Lounge.
Per circa dodici anni a partire dal maggio 1957 (l’ingaggio originario doveva essere di due settimane) lascerà una impronta importantissima nella storica London House, all’angolo tra Wacker Drive e Michigan Avenue, suonando in trio – nella sua formazione definitiva – con Richard Evans al basso e Marshall Thompson alla batteria. Proprio alla London House Eddie incontra, ascolta e ha il piacere di suonare non solo il piano ma anche il vibrafono, con le grandi stelle di quel periodo: Cannonball Adderley, Stan Getz, Dizzy Gillespie, Bill Evans e George Shearing (che proprio allora compose A foggy day in London House).
Gli album che Higgins registra in quegli anni sono molti, sia come solista, sia come sideman per artisti di grande calibro come Coleman Hawkins, Lee Morgan, Wayne Shorter, Bobby Lewis, Freddie Hubbard, Al Grey. È proprio da questo punto della carriera che il suo nome incomincia a farsi strada nel mondo del jazz ed Eddie diventa un pianista molto richiesto in formazioni nate per le situazioni più disparate.
Il primo album che porta il suo nome in copertina (The Ed Higgins Trio) uscito con il marchio Replica, risale al 1957 ed è interpretato dal primo trio con cui suonò presso la London House. Fu registrato nel garage della casa di un certo Bill Huck, un locale nella periferia di Chicago riconvertito a studio in cui si incideva un tipo di musica per organo allora in voga. Huck aveva incominciato a vendere bene i lavori che aveva prodotto fino a che non si gettò nel jazz: dopo la registrazione di questo e alcuni altri dischi andò in banca rotta e lo studio chiuse i battenti.
La grande occasione si presenta nel 1959 quando suona al Playboy Jazz Festival di Chicago in quartetto con Coleman Hawkins. Eddie mi ha rivelato l’anno successivo al nostro incontro a Torino, quando l’ho incalzato a raccontarmi la sua esperienza con Hawkins, i curiosi particolari di quella lontana giornata. Mi disse che il palco del Chicago Stadium era rotondo e diviso a metà da una tenda, in modo che quando un gruppo aveva finito il suo set, immediatamente l’altro poteva attaccare senza pause per la preparazione e il posizionamento degli strumenti: era sufficiente farlo ruotare sul suo asse di 180 gradi. A quindici minuti dalla loro esibizione, Hawkins non era ancora arrivato dall’aeroporto: alla fine, con un margine di cinque minuti, si è presentato sul palco vestito in modo impeccabile e con il sax nella custodia. Da una borsa da viaggio ha tirato fuori una bottiglia di whisky e ne ha bevuto una discreta quantità: Eddie si presentò a lui e gli chiese se volesse suonare qualche cosa in particolare, tenuto conto che stavano per iniziare. La risposta fu un’alzata di spalle, un grugnito e un’altra sorsata di whisky. Velocemente Eddie decise alcuni brani mentre Hawkins sembrava infischiarsene di tutto. Dovendo iniziare e vedendo che il sax era ancora da montare, Eddie diede l’attacco per All the things you are con il celebre intro di Parker. Quello che gli si presentò di fronte una volta che il palco ebbe concluso la rotazione fu un pubblico di 19000 persone, un numero oggi impensabile per un concerto jazz. Una volta terminato il loro set, Hawk impacchettò il sax, camminò loro vicino e se ne andò. Il fatto incredibile è che non disse mai una parola ma suonò in maniera divina e accompagnarlo in quell’esperienza fu per Eddie assolutamente elettrizzante.
Arriverà poi il 1960 con, parole di Eddie, una delle sue più brillanti studio sessions: il caso ha voluto che fosse invitato da un giornalista locale a registrare presso i Chess Studios (sempre a Chicago) con Al Grey come leader al trombone e alcuni membri dell’orchestra di Count Basie. Il frutto di quelle registrazioni sarà The Thinking Man’s Trombone che contiene la hit Salty papa, resa celebre proprio dall’intro di piano suonato da Eddie.
Contemporaneamente incide per la Vee-Jay Records un album memorabile (Expoobident) insieme a Lee Morgan alla tromba, Clifford Jordan al sax tenore, Art Davis al basso e Art Blakey alla batteria. Ho letto in un’intervista rilasciata da Eddie che dopo il successo dell’album, non volle saperne di partire in tour con Art Blakey non ostante fosse stato proprio Art a chiederglielo. Non conoscendo purtroppo questo episodio e non avendo chiesto a suo tempo spiegazioni a Eddie, non saprò mai il perché di quel ‘gran rifiuto’.
Nel 1961 sarà la volta della nota session con Wayne Shorter al sax tenore, Freddy Hubbard alla tromba, Jymie Merritt al basso e Marshall Thompson alla batteria. A Higgins toccherà anche comporre un brano che darà sia il titolo al disco che ne nascerà, sia un duraturo riconoscimento in denaro per i diritti d’autore conseguiti: si tratta di Wayning moments, uno splendido sunto delle tendenze musicali minimali del periodo ‘post Kind Of Blue’, e in particolare di un tematismo che deve molto alla linearità di All blues
Dal settembre del 1962 al marzo del 1963 percorre in lungo e in largo la parte est degli Stati Uniti con il grande trombonista Jack Teagarden (noto nell’ambiente con il soprannome di ‘Big T’) per approdare infine a Fort Lauderdale in Florida. Quel tour sarà immortalato da un LP con una gestazione assai particolare. Una sera al Beach Club Hotel un fan si portò dietro un registratore a nastro e lo posizionò su un tavolo di fronte alla band. L’apparecchio era dotato di un piccolo microfono in ceramica assolutamente non professionale; il suo proprietario domandò a Jack se avesse potuto registrare la serata promettendo in compenso di inviarne una copia alla band. Qualche mese più tardi Eddie riceverà i nastri: all’ascolto ne risultò un suono orribile, distorto e carico di fruscio. Dato che il microfono era posizionato di fronte a Teagarden, si sentivano solo il trombone e il pianoforte, mentre il basso di Maynard Gamble e la batteria di Barrett Deems quasi non erano percepibili. Era come sentire musica alla fine di un tubo di scolo, ricorderà Eddie. Il caso volle che una copia del nastro andasse a finire nelle mani di Ed Burke, un fan accanito che aveva pubblicato diversi LP di big band e alcuni nastri privati con la sua etichetta Fanfare. È così che Jack Teagarden Sextet In Person At The Beach Club Hotel vide la luce con grande disappunto di Eddie.

La riflessione

Il trasferimento a Fort Lauderdale nel 1970 inaugura una fase nuova, soprattutto per la vita privata di Eddie che oltretutto tornerà sempre più raramente nella fredda Chicago per suonare nei jazz club locali come il Back Roo, sulla Rush Street o il Jazz Showcase. È del 1978 il suo primo album ‘a solo’, frutto della fusione di due precedenti LP intitolati My Time Of Day e Dream Dancing. Mentre Bill Evans sta per concludere la sua esperienza artistica e umana, Eddie, dopo averne assorbita tutta l’eleganza possibile, la rigetta in questo lavoro raffinato che gli apre la strada per un più maturo percorso pianistico.
Gli anni ‘80 infatti saranno un trampolino di lancio per la sua carriera: il primo viaggio in Giappone risale al 1980 dove per circa quattro mesi suonerà in vari hotels di Osaka e Niigata e jazz clubs in molte altre città. Oltretutto registrerà un album per la Toshiba Records che sarà distribuito con il titolo Sweet Lorraine. Il Giappone ha rappresentato per Eddie un luogo ideale per vivere e suonare tanto da descriverlo così: “ottimo pubblico, pianoforti buoni, splendidi treni e metropolitane e soprattutto cibo eccellente”. A proposito di cibo, ricorda che durante le sessioni di registrazione per l’album, durante la pausa per la cena il produttore, sperando di fare un gradito omaggio al suo ospite americano, gli fece portare uno specialissimo ‘Kentucky Fried Chicken’, non sapendo quanto Eddie odiasse il cibo dei fast food e amasse invece i piatti tipici locali. 
Intanto anche il soggiorno dorato a Fort Lauderdale porta i suoi frutti. Eddie suonava spesso al Bubba, un elegante ristorante che ha proposto jazz dal 1978 al 1982. Sono gli anni migliori della carriera di Higgins poiché potè confrontarsi con musicisti di fama mondiale in un ambiente splendido. Approdarono al Bubba Dizzy Gillespie, Milt Jackson, Joe Williams, Stan Getz, Joe Pass, Al Cohn e Zoot Sims; inoltre, sempre al Bubba, ha diviso sovente il palco con il leggendario poli-strumentista Ira Sullivan.
Nel 1988 sposa la cantante e pittrice Meredith d’Ambrosio, sua partner in una nutrita sequela di album per la Sunnyside. Da allora incomincia per la coppia una serie di ininterrotti viaggi in Europa ma soprattutto nell’amato Giappone, dove Higgins nel frattempo è divenuto una vera e propria star del firmamento jazz, con notevoli picchi di vendite dei suoi dischi registrati e prodotti dall’etichetta Venus.
Moltissimo materiale sarà inciso ancora dagli anni ’90 in poi, alternando formazioni diverse e un repertorio estremamente variegato.

L’uomo

Vorrei dare un’ultima campitura di colore a questo breve ritratto di Ed Higgins, forse la più calda perché non basata su interviste o fonti indirette ma su vicende vissute insieme.
Come ho già accennato all’inizio, ho avuto l’occasione di incontrare Eddie a Torino e poi, onore non concesso a tutti, di averlo ospite per ben due volte a casa mia.
Questi due momenti avvennero rispettivamente nel marzo 2007 e nell’aprile 2008. Una serie di circostanze avevano fatto sì che un amico comune, cantante per passione, scegliesse la mia abitazione in quanto dotata di pianoforte e di apparecchiature adatte per la registrazione, per una incisione casalinga di ballads accompagnate da Eddie. La cosa interessante è stata ovviamente avere a tu per tu un grande musicista libero di esprimersi in una situazione intima: questa opportunità rende manifeste a chi ascolta tutte le sfumature artistiche e l’approccio con lo strumento atte a creare un sound decifrabile altrimenti solo se veicolato dai soliti mezzi di riproduzione meccanica.
Registrammo nelle due sessions circa trenta brani scelti dal cantante e comunicati seduta stante a Eddie, il quale si rese versatile non solo nella loro esecuzione nella tonalità suggerita, ma spesso nella trasposizione dello stesso brano, rimanendo impassibile di fronte all’idea di improvvisare in tonalità per i più ‘scomode’ o inusuali. Quasi sempre fu buona la prima versione, senza incertezze o sbavature.
Ne venne fuori un saggio di maestria, versatilità e mestiere indescrivibile: quello che colpiva e che avevo già notato nel concerto di Torino, era l’uso di una formularità negli attacchi e nei finali che giustificava a pieno titolo i cinquant’anni di storia del jazz che aveva attraversato e che si nota bene nelle incisioni successive agli anni ‘90. Anche se si stava giocando in modo informale, Eddie curò molto anche i soli, cercando viceversa di non scivolare nella ripetizione di modelli che necessariamente aveva acquisito e costruendo talvolta delle improvvisazioni quasi esclusivamente armoniche o con pacate variazioni accordali. 
Dimostrò un grande enciclopedismo non solo nella conoscenza del repertorio, ma anche degli stili, spaziando dal dixieland all’hard bop.
Una piccola curiosità: durante la prima sessione di registrazione, uno dei brani scelti fu l’immancabile Autumn leaves. Il cantante disse a Eddie che l’avrebbe interpretata in francese mantenendo intatta la struttura originale del brano; presa la tonalità e declamate le prime parole sulla melodia della strofa, Eddie si interruppe e sostenne di non aver mai sentito quel brano. Stupiti scoprimmo presto che in quasi sesant’anni di carriera e dopo aver interpretato il pezzo centinaia di volte, non gli era mai capitato di eseguire quello standard nella sua versione originale e che di conseguenza era convinto che Les feuilles mortes consistesse unicamente nel refrain.
Ci lasciò con un inedito: finiti i brani cantati volle ancora inciderne uno che aveva composto in quei giorni in albergo e intitolato, forse provvisoriamente, April in Torino. Non mi risulta che abbia avuto il tempo di editarlo come si deve ed è per questo che conservo gelosamente quello che considero il suo testamento artistico. 
È morto l’anno successivo, il 31 agosto 2009 presso l’Holy Cross Hospital in Fort Lauderdale per un tumore ai polmoni e al sistema linfatico e le sue ceneri sono state disperse a Cape Cod, a sud-est di Boston.

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